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PRECISAZIONI E CORREZIONI IN MERITO ALL’ARTICOLO “MIGRANTI, MILLE EURO PER I PERMESSI DI SOGGIORNO” DEL 6 SETTEMBRE, PUBBLICATO DALLA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

Relativamente all’articolo “Migranti, mille euro per i permessi di soggiorno” scritto da Massimo Levantaci e pubblicato dalla Gazzetta del Mezzogiorno in data 6 Settembre, ci troviamo a fornire una replica doverosa. Ci sembra necessario rispondere ai gravi errori e alle tante imprecisioni con questa lettera, considerando il fatto che vengono citati tra virgolette stralci di conversazione che non corrispondono a quanto da noi è stato molte volte spiegato, relativamente a questa ed altre situazioni. Ci troviamo a constatare che l’articolo suddetto denota una superficialità e una grave mancanza di rigore che invece sarebbero assolutamente necessari per chi fa informazione e racconta temi così delicati e importanti.

Affermare che le misure, volute da Salvini per rendere ancora più difficile l’accesso al permesso di soggiorno, si starebbero rivelando “un ostacolo più facile del previsto da superare” è semplicemente falso. Al contrario, cercare di ottenere i documenti – anche per persone che fino a ieri ce li avevano – sta diventando sempre più un labirinto. Quello contro cui stiamo lottando è proprio questa ulteriore vessazione, che costringe i lavoratori e le lavoratrici delle campagne a comprare contratti e residenze. È un paradosso: si spaccano la schiena nei campi per salari da fame e lavorando in nero, e devono pagare per avere uno straccio di contratto! “Si trova sempre il modo per aggirare la legge”, leggiamo nell’articolo. Ma per chi? Sicuramente per i padroni che li fanno lavorare senza regolarizzarli, e non certo per loro. Infatti, la Questura vede quello che vuole vedere quando si tratta di immigrati: chi prova a rinnovare il permesso di soggiorno ha sempre più difficoltà, ma il fatto che queste persone lavorino in nero, non interessa affatto. Quello che stiamo denunciando è anche che, da questo incubo burocratico, molti Italiani stanno traendo lauti profitti.

Un’altra precisazione. Al contrario di quanto scritto erroneamente nell’articolo, la residenza non viene concessa solo a patto di dichiarazione di ospitalità, questa è solo una delle possibilità. Dovrebbe essere compito del comune di riferimento effettuare l’iscrizione anagrafica presso gli insediamenti dove abitano i lavoratori, come avviene in altri luoghi. Il contratto di lavoro, inoltre non è affatto una conditio sine qua non per chiedere la residenza (come recita l’articolo): questa è invece è un diritto soggettivo in capo a tutte le persone regolarmente soggiornanti, a prescindere dal fatto se loro abbiano o no un lavoro. Si scrive inoltre che i contratti di lavoro sono necessari per andare in altri Paesi: assolutamente no, è possesso di un regolare permesso di soggiorno che permette la libertà di circolazione, a prescindere dal fatto di avere un regolare impiego o no. Si scrive poi che il permesso di soggiorno per lavoro dopo cinque anni permetterebbe la permanenza sul suolo comunitario: solo a patto di avere la residenza, si può chiedere permesso a tempo indeterminato.

Le imprecisioni sono ancora molte…Ma ricominciamo dall’inizio, per fare chiarezza.

La compravendita di contratti in agricoltura e di residenze non inizia oggi con il Dl 2018 n.113 (Decreto Sicurezza), ma è una pratica diffusa in varie parti di Italia da tempo per superare gli ostacoli che leggi sull’immigrazione ottuse e razziste oppongono alla regolarizzazione delle persone, producendo una maggiore ricattabilità e rischio di essere gravemente sfruttati sul lavoro. La possibilità di possedere un documento ed essere regolare sul territorio dello stato è indissolubilmente legata infatti alla possibilità di lavorare regolarmente, circolare liberamente ed accedere ad una casa.

Di certo l’ultimo decreto ha acuito questo fenomeno, anche per via dell’eliminazione del permesso umanitario e dell’impossibilità di rinnovarlo come tale: alle persone a cui sta per scadere il permesso umanitario rimane la possibilità di tornare in audizione presso la Commissione territoriale che può concedere un permesso di Protezione speciale, permesso della durata di un anno e non convertibile alla sua scadenza (per ottenere il quale, al contrario di quanto si legge nell’articolo, non sono necessari contratto di lavoro né residenza); in alternativa occorro convertire in permesso di lavoro, che è la soluzione più conveniente da percorrere. Tra i requisiti fondamentali per ottenere questo permesso vi è il possesso di un contratto di lavoro regolare corredato di buste paga che attesti l’impiego della persona presso una determinata azienda, e una residenza anagrafica.

Nascono allora due generi di problemi. Il primo è la necessità di ottenere un contratto valido, con una durata minima di sei mesi, in un territorio in cui rarissimamente vengono stipulati contratti regolari dai datori di lavoro: la maggior parte di questi concede contratti di tre mesi che danno la possibilità di aprire posizioni temporanee e con le quali si può aggirare il versamento dei contribuiti. Il problema però non riguarda soltanto i contratti di tre mesi, come erroneamente viene scritto. Gli ingaggi in agricoltura, a prescindere dalla durata sono sempre suscettibili di violazioni rispetto al versamento dei contributi perché non obbligano il datore a garantire un numero minimo di giornate lavorative: questo impedisce ai lavoratori di chiedere il sussidio di disoccupazione che spetterebbe loro. Ecco il motivo per cui ci si ritrova a spendere tra le 350 e le 400 euro per un comprare un finto contratto che riporti il proprio nome e cognome.

Il secondo problema è generato dal fatto che per la conversione del permesso è necessaria un residenza che corrisponda ad un indirizzo reale e i comuni di riferimento si rifiutano di effettuare l’iscrizione anagrafica nei luoghi dove effettivamente i lavoratori abitano. Oltre a questo, c’è da dire che le questure non riconoscono ai fini della conversione la residenza fittizia che i comuni dovrebbero per legge fornire a tutte le persone senza fissa dimora del territorio o che vivono in luoghi informali. Non potendo ottenere un’iscrizione anagrafica dove realmente vivono né usare una residenza fittizia, l’alternativa per i lavoratori è farsi fare dal datore del lavoro una dichiarazione di ospitalità, requisito molto difficile da ottenere e che dipende dall’arbitrio del padrone, soprattutto nei casi di contratti brevi. Da qui la necessità, per chi vive in un ghetto e non può permettersi un affitto di locazione, di comprare una residenza con un indirizzo reale, il cui costo si aggira tra i 300 e 500 euro. Implicati nel business delle residenza sono in molti casi associazioni e sindacati presso i quali i lavoratori si rivolgono nella speranza di trovare un supporto, e dai quali invece vengono ingannati e derubati, a Foggia come in Calabria e in molti altri luoghi. Abbiamo testimonianza di diverse le persone con urgente bisogno di una residenza per convertire il proprio permesso che sono state rinviate dall’Ufficio anagrafe del comune di riferimento direttamente presso associazioni che gestiscono le strutture o sindacati, ai quali hanno lasciato cospicue prebende per ottenere quello che dovrebbe essere gratuito per tutti.

Una nota positiva su questo tema è che in seguito alla manifestazione del 2 settembre il Comune di San Severo sbloccherà le iscrizioni anagrafiche presso la struttura dell’Arena, dove centinaia di persone vivono dal 2017.

In definitiva la responsabilità di queste aberrazioni e abusi è sicuramente in parte dei datori di lavoro e delle associazioni di categoria, che non rispettano le leggi, non stipulando contratti regolari e non fornendo alloggio ai lavoratori impiegati, che potrebbero prendere la residenza presso la stessa azienda. Da questa situazione, secondo molte testimonianze dirette, ci guadagnano in maniera illegale associazioni e sindacati che prendono soldi per permettere l’accesso a diritti gratuiti. Ma soprattutto questo meccanismo scaturisce dall’assurdità della legge sull’immigrazione e dai numerosi abusi portati avanti da Questure e Uffici anagrafe dei comuni, che rendono impossibile la regolarizzazione per chi da anni vive e lavora su questo territorio.

I lavoratori delle campagne, a Foggia come in Calabria e in molte altre parti di Italia, hanno molto chiaro questo meccanismo, e dal 2015 scendono in piazza in maniera autorganizzata per rivendicare documenti per tutti, contratti regolari e alloggi che non siano container, tende o campi. L’unica reale alternativa per regolarizzarsi e quindi poter lavorare regolarmente è lottare insieme, per forzare questi meccanismo perverso e scardinare l’intero impianto legislativo sull’immigrazione.

Rete Campagne in Lotta