Giustizia Pena e Misericordia

L’argomento che trattiamo non è certamente nuovo dal punto di vista giuridico, antropologico, morale e soprattutto teologico.

E’ un argomento sempre attuale  ed eterno in quanto riguarda l’uomo e la  sua dignità Personale, vista nei confronti di chi ha commesso reati, delitti o peccati, ma  anche di coloro che hanno subito la violenza e le conseguenze di essa, e nel contesto  della società, ma anche e soprattutto alla luce Di Dio Padre che nella sua essenza è contemporaneamente Giustizia e misericordia.

Ci troviamo quindi di fronte all’uomo che ha commesso delitti, nei suoi rapporti con se stesso e con Dio, con  le vittime del delitto e nel contesto dello stato di diritto, con la prospettiva, a mio avviso, di approfondire il significato filosofico e teologico della pena, sforzandoci, alla luce di esperienze vissute, di trovare sanzioni alternative  alla tradizionale e sbrigativa  carcerazione.

In questo senso l’argomento e la struttura di questo convegno è un atto di coraggio non solo per l’obiettivo che si propone  ma soprattutto  per la consapevolezza  di  dovere trovare  risposte alternative  alla tradizionale pena retributiva,  dialogando,  come metodo di lavoro e di verifica, con le persone  che nel bene e nel male sono state e sono  ancora oggi  coinvolte e che  sono state   protagoniste di questa realtà così complessa e dolorosa.

La mia presenza vuole essere  testimonianza di uomo, di cristiano,  e soprattutto di prete, che anche se giuridicamente non lo è, si ritiene fino in fondo con orgoglio operatore carcerario, mandato dalla Chiesa ad annunciare il Vangelo in  un contesto violento, illuminato sempre e comunque dalla fede.

Seguendo per oltre 40 anni  l’evoluzione giuridica e sociale  nel mondo del penale, di fronte ai delitti o reati commessi nella società civile, mi pare di potere affermare che spesso o quasi sempre la risposta dello stato sia stata  quella di ricorrere a leggi speciali, allungando o diminuendo i tempi ed il regime più o meno afflittivo della carcerazione.

Così il carcere si è trasformato all’epoca del terrorismo, (art. 90) dell’emergenza droga,  e dell’immigrazione  di massa, della violenza mafiosa (41 bis) e di fronte allo squallore morale per la violenza nelle donne e sulle  tragedie della pedofilia, e della riduzione o dell’eliminazione della pena  di fronte al fenomeno del pentitismo.

Di fronte a questa realtà, sarebbe stato ed è importante riflettere sul significato, sul valore  e sulla finalità   della pena vista  nel contesto della coscienza dell’uomo, della costituzione italiana, art 27 dell’ordinamento penitenziario (trattamento penitenziario)  e della mente di Dio; nel contesto di queste realtà, appare  chiaramente che ogni punizione non avrebbe senso se non fosse finalizzata oltre che all’afflizione del reo anche e soprattutto alla sua conversione interiore, ed alla riconciliazione con Dio e col prossimo in vista di un suo ritorno nella stessa società da cui è partito e nella quale  sono stati consumati i reati. (Ospedale e malati)

Alla luce di questi valori fondamentali – scrive Simone Weil ne “La prima radice” – “la pena è un bisogno vitale dell’anima umana. Quella più indispensabile all’anima è la punizione del delitto. Col delitto infatti l’uomo si pone da sé fuori della rete di obblighi eterni che unisce ogni essere umano a tutti gli altri. Egli può esservi integrato soltanto con la punizione; interamente, se v’è consenso da parte sua, e parzialmente se non ve n’è”.

 

Il bisogno di punizione non è soddisfatto quando il codice penale sia solo una procedura di costrizione che s’imponga con la forza senza convincere quanto al delitto e alla giustizia della sua pena.

La soddisfazione di questo bisogno esige, scrive ancora Simone Weil, che quando riguarda il diritto penale abbia un carattere solenne e sacro.

Occorre che la punizione sia un “onore” che non solo cancelli la vergogna del delitto, ma venga considerata un’educazione supplementare che obbliga ad essere maggiormente devoti al pubblico bene. Occorre anche che la gravità della pena risponda al carattere degli obblighi violati e non solo all’interesse della sicurezza sociale, con la conseguente preminenza del fine retributivo su quello socialmente utile.

Nel discorso filosofico finora richiamato, risuona l’eco profondo del pensiero biblico sulla pena. La violazione della legge nella Bibbia,è la trasgressione di un patto o, meglio di un’alleanza fondamentale tra Dio e l’uomo: è scegliere la morte e rinnegare la vita, e, in questo senso, la violazione contiene in se stessa la pena-sofferenza che, attraverso la consapevole volontaria espiazione, implica il recupero della giustizia, ossia del giusto rapporto con Dio prima e con gli uomini fratelli poi.

L’uomo di fronte alla sua colpa

Nella prassi morale ed esistenziale, il riconoscimento della propria colpa e della propria situazione di peccatori, costituisce uno degli aspetti più ardui e critici della nostra esistenza; anche sul piano naturale, culturale e sociale infatti, l’uomo deve fare i conti con la sua debolezza, le sue rotture e le sue deficienze dettate spesso dall’ignoranza.

         Talvolta si tratta di un fallimento morale, del crollo di una certa immagine di se stessi, dello scacco di un programma di vita ed in tale conflitto ogni uomo prova una sorta d’impotenza per cui non riesce a fare ciò che dovrebbe e forse vorrebbe. Per di più frequentemente, questa impotenza è appesantita da un senso di colpa: egli,  persona in quanto tale, sa di aver scelto lui stesso il male, liberamente. Da questa esperienza nascono sentimenti nuovi; l’impotenza nel fare il bene suscita psicologicamente il rammarico, e l’aver voluto il male suscita poi il rimorso.

Come reagire in queste situazioni? Vi è una via d’uscita?

Non vi è dubbio che un intreccio di contraddizioni influisce sul nostro pensiero e sulla nostra volontà: i conflitti sociali, gli squilibri economici, le remore psicologiche, la mentalità corrente ecc. fanno si  che la diagnosi del male e la sua gravità sfuma d’intensità e di responsabilità.

         Ma deve essere molto chiaro che eliminare la responsabilità nella colpa sarebbe un privarci della libertà e della responsabilità personale; pretendere che il male fatto per qualunque motivo non sia imputabile, sarebbe il rifiuto del merito per azioni buone ed in entrambi i casi, sarebbe impossibile ogni morale.

         Per cui, minimizzare o banalizzare la colpa non è una soluzione soddisfacente ed adeguata, spesso è addirittura illusoria e pericolosa ( giustificazione o ritenersi innocenti nonostante i reati) con la conseguenza  di uno sbocco fatale:  forme di qualunquismo e superficialità che accomoda ogni coscienza o induce a forme di pessimismo o di disperazione. (suicidi)

 

 

L’ “uso” improprio di Dio

Partendo dal presupposto che Dio nella sua essenza, come si è detto , è essenzialmente Giustizia amore e misericordia, da cui poi derivano gli attributi relativi alle attività degli uomini e delle istituzioni, possiamo affermare che qualunque atto che non tenga conto di questa verità, rischia di diventare o diventa di fatto una ricerca o una affermazione parziale della stessa verità personale ma anche istituzionale

In questo contesto un impegno fondamentale verso tutti gli uomini, che siano dentro o siano fuori dal carcere   deve l’essere orientato soprattutto dalla Chiesa, a formare una coscienza retta e vera in vista dell’acquisizione  della fede, e dell’uso  vero di Dio e della stessa religiosità. 

La mancanza di conoscenza autentica del vero Dio, spesso  impedisce, nei momenti di crisi morale, quando si è alle prese con il proprio peccato, di rivolgersi a Lui, alla sua misericordia ed alla sua giustizia, e questo  a causa  dei  limiti di una concezione religiosa  dovuta a false immagini e forme tradizionali pseudo religiose che consentono, non solo di giustificare le proprie azioni criminali, ma di o strumentalizzarle  nel contesto dell’ambiente e della cultura in cui abbiamo vissuto e viviamo.

         Di pari passo  si può creare un’immagine di Dio, giudice severo con cui bisogna fare i conti, autore di una legge repressiva, che in ultima analisi, genera in noi sentimenti di ribellione, di estraneità, di chiusura che altro non è che la proiezione di se stessi su di Lui.

         Questa immagine di Dio ha un suo rovescio, ma è pur sempre la stessa medaglia, quella cioè di un Dio bonaccione, di un’indulgenza così banale da lasciar correre tutto e tutti. La misericordia è allora ridotta ad un comodo strumento per mettersi a posto superficialmente ed a poco prezzo.

 Illuminato invece da una fede  autentica e fondata, l’uomo che si riconosce peccatore,  sofferente  e  bloccato nella sua impotenza,  lontano da Dio per una tragica serie di malintesi, ha  bisogno di riscoprire, di riconoscere il volto del Padre e la sua misericordia che nell’Antico Testamento è una sorta di compassione attiva, la quale presuppone un cuore che vibra di una tenerezza quasi materna. Vi è in essa una nota di gratuità, ma anche di fedeltà, una fedeltà che non viene mai meno,  e che mantiene la sua parola, nonostante le infedeltà e i traviamenti dell’uomo.

         La conclusione che se ne può trarre è l’esigenza di una “comunione aperta” tra Dio e l’uomo ed i suoi fratelli ed un confronto diretto con le istituzioni chiamate a giudicare le loro azioni ma anche  ad informare secondo verità e prescindendo da interessi parziali o personalizzati. Accogliendo a cuore aperto il dono del perdono, l’uomo, mentre  ritrova la gioia del suo rapporto col Padre,  ritrova anche se stesso, la sua autenticità e, nello stesso tempo, la capacità di perdonare a sua volta i fratelli per ristabilire la pace con loro.

La Chiesa, come prassi nel corso degli anni, da sempre ma soprattutto nei momenti di emergenze e gli anni di piombo li riteniamo tali, riscoprendo il primato del­la funzione missionaria e profetica,  alla luce di molti documenti emanati tra i quali “Evangelizzazione e sacramenti”, “evangelizzazione e promozione umana”, “documento di base sulla catechesi”, ha sentito e sente l’e­sigenza di mettersi in una posizione di attenta riflessione per essere in grado di dialogare con tutti gli uomini del nostro tem­po e, privilegiando in maniera specifica, “gli ultimi”.

Luogo privilegiato  è la Chiesa locale e quindi anche la nostra, intesa non solo come territorio ma anche  come spazio teologico in cui si vive con­cretamente il respiro della Chiesa universale(Comunione e comu­nità)

In essa la pastorale carceraria, che in verità nel passato aveva a­vuto attenzioni accidentali e spazi operativi delegati ai soli cappellani o a poche persone sensibili, ha avuto una sua più pre­cisa collocazione ed una seria attenzione dopo il  convegno di Loreto”(9 giugno 1985), da cui è rimasto e rimane quanto mai attuale anche ai nostri giorni il messaggio dei Vescovi Italiani dove  al N° 39  si legge “la comunità ecclesiale è chiamata ad operare nell’unità, nella verità e nell’amore, perchè l’esercizio della giustizia sia sempre rispettoso dell’uomo e sia fondato sullo spirito del diritto

Il perdono cristiano sollecita anche una nuova riflessione sulla giustizia, che porti alla revisione delle pene, al rinnova­mento dei codici, all’esercizio di un diritto alleato dell’amore, oltre all’impegno per carceri che siano a misura d’uo­mo, nel rispetto di una giustizia aperta alla speranza”

La rivelazione piena e l’esperienza totale del nostro Dio a contatto con l’umanità,  si manifesta e si esprime nel modo più perfetto e definitivo in Gesù Cristo. Tra lui e il peccato vi è incompatibilità assoluta, egli è venuto per giudicarlo, per vincerlo ed in virtù di questa vittoria, vissuta pienamente sulla Croce, Gesù ha il potere di perdonare i peccati e di trasmettere questo potere agli apostoli ed alla Chiesa, che naturalmente devono essere fedeli al suo mandato ( scoperta del Santo Padre Francesco (Cristo diventa compagno di cella)

         In questa visione  sta tutto il cristianesimo. Infatti la risposta di Gesù sconvolge tutte le richieste: essa non dice cosa bisogna fare, essa dice che Dio viene a perdonare e ne dà la prova tangibile: Gesù vive in mezzo ai peccatori, mangia e beve con loro, consapevole che:

“Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla cono­scenza della verità”

” non vuole la morte del peccatore ma che egli si converta e viva”

” dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo peccatori, è morto per gli empi nel tempo stabilito”

“Si fa più festa in cielo per un peccatore convertito che per no­vantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”

“Ma il Padre disse ai servi: “presto portate qui il vestito più bello e rivestitelo…portate il vitello grasso, ammazzatelo, man­giamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita,era perduto ed è stato ritrovato”

          La parabola del figlio prodigo che prende coscienza del suo errore rivela tutto l’impegno ed il desiderio del Padre di acco­gliere l’errante senza l’esigenza di comminare pena alcuna.

           Ciò che conta è il recupero interiore della persona.

Questo progetto di salvezza è stato attuato definitivamente col mistero dell’Incarnazione di Cristo.

 Nella Sua morte e resurrezione ogni uomo ha la capacità di morire al peccato e risorgere a vita nuova.

          Una verità che ci pone in condizione di speranza e di fidu­cia nei confronti di ogni uomo, in qualunque condizione si venga a trovare.

          Il contesto di questa umanità è presente in tutte le situa­zioni in cui vive la persona; ma gli istituti di pena sono certa­mente luoghi privilegiati in cui si sintetizzano gli errori della società intera ed in cui, si vive la sofferenza che intacca radicalmente la di­gnità della persona umana, privata dell’esigenza fondamentale al­la libertà.

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                                                                   Don Silvio Mesiti