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Ndrangheta: Klaus Davi pubblica lettera di Domenico Logiudice sul carcere

“In quel luogo ho imparato cosa voglia dire inclusione”

Klaus Davi ha pubblicato una lettera di Domenico Logiudice, esponente di una nota famiglia di ‘Ndrangheta di Reggio Calabria sui propri profili facebook, che affronta il tema della detenzione. Nella lettera dal titolo “Il Carcere” Logiudice parla della sua esperienza dietro le sbarre ed è ricca di considerazioni originali.

“È il pregiudizio a prevalere tra i pensieri di molte persone,
perché è come se fosse il luogo in cui tenere rinchiuso, a priori,
chi ha sbagliato, chi ha commesso, chi si pensa abbia commesso
un reato, relegandolo tra le sbarre e quattro mura, con un solo
unico bagaglio, quello dei suoi errori o presunti tali, poche cose
su cui contare: labili certezze unite a molteplici perplessità” , scrive lo Giudice. In un altro passaggio “ chi vive od opera nel carcere si accorge sin da subito che l’idea di un posto insano sia solo un preconcetto, un pregiudizio
basato su luoghi comuni di pensiero in generale; è un posto dove
si incontrano persone di tutti i generi, di ogni estrazione sociale;
è un mondo parallelo e in miniatura che non fa altro che
riprodurre, a grandi linee e per certi versi, il mondo esterno al
carcere, il mondo di fuori!” “La vita è come un treno: sta a noi, solo a noi,
saperla condurre sul binario giusto! L’ignoranza è il buio, la
conoscenza e la cultura sono quella luce che illumina la nostra
vita, la nostra esistenza!”

“La lettera – dichiara Klaus Davi – era già apparsa su una rivista di Milano. Quando Domenico Logiudice me la mandò ebbi un moto di commozione e gli domandai di ripubblicarla. Lo voli anche incontrare e rimasi molto colpito da come ragionava. Per me è una persona interessante, giornalisticamente di assoluto rilievo, per il resto non sono ne un rabbino né un pastore né un chierico….Fare esami di coscienza non è compito dei giornalisti ma dei preti e poi, come tutti sanno, non sono neanche cattolico…….”

IL CARCERE

di Domenico Logiudice
Carcere è una parola nuda e cruda, che istantaneamente produce,
traduce e incute diffidenza, timore e dubbio. Che si legga, che si
pronunci, che si ascolti, è un concetto di luogo e circostanza a
cui con difficoltà ci si avvicina, perché lo si identifica come un
posto in cui a stazionarci ci sia il lato più ambiguo e brutto del
mondo. È una realtà, un qualcosa che non si conosce se non per
ovvi motivi, per cui ogni persona forma nella sua mente un
concetto e un’immagine di un mondo contorto; un pensiero di
qualcosa di apparentemente astratto e distorto, un mondo
parallelo ma sommerso, distante, isolato e tenuto lontano il più
possibile dal resto del mondo… “Ignorare”, sembra questo il
verbo imperativo!
È il pregiudizio a prevalere tra i pensieri di molte persone,
perché è come se fosse il luogo in cui tenere rinchiuso, a priori,
chi ha sbagliato, chi ha commesso, chi si pensa abbia commesso
un reato, relegandolo tra le sbarre e quattro mura, con un solo
unico bagaglio, quello dei suoi errori o presunti tali, poche cose
su cui contare: labili certezze unite a molteplici perplessità.
Si individua nel carcere la “soluzione” a tutti i problemi, un
rimedio facile quanto sbrigativo, adeguato a chi in un modo o
nell’altro ha sbagliato. Il carcere: non l’eccezione, ma una
semplice regola!
Ma chi vive od opera nel carcere si accorge sin da subito che
l’idea di un posto insano sia solo un preconcetto, un pregiudizio
basato su luoghi comuni di pensiero in generale; è un posto dove
si incontrano persone di tutti i generi, di ogni estrazione sociale;
è un mondo parallelo e in miniatura che non fa altro che
riprodurre, a grandi linee e per certi versi, il mondo esterno al
carcere, il mondo di fuori! È una piccola realtà multietnica,
globalizzata in tutti i sensi, un incontro di usi e costumi, modi di
pensare e vivere così diversi e variegati che finiscono per
trovare un saldo punto d’incontro. Diversità di culture, religioni
e convivenza sono alla continua ricerca di “un punto di
equilibrio” che funga da collante tra le diverse realtà, perché alla
fine a prevalere è un unico comune denominatore, “il senso e la
realtà del carcere”, qualcosa che accomuna tutti quanti allo
stesso modo, sullo stesso piano, appianando quasi sempre ogni
piccola divergenza di opinione e di vedute; pur non
condividendo l’idea o il pensiero di qualcuno, li si rispetta.
Il carcere è anche questo, soprattutto questo: è “l’umanizzazione
dei rapporti”, perché la condizione è il punto di incontro e
condivisione, il punto di partenza per ogni rapporto. Il mondo
“di dentro” e il mondo “di fuori” non sono due mondi differenti,
ma un solo unico mondo vissuto in due modi diversi, ma dove il
fattore umano deve essere una convergenza unanime e primaria.
Partendo da ciò può avere inizio un primo passo verso il
concetto vero della vita.
Non è facile contestualizzare il carcere con semplici parole,
frasi, anche perché quando si è privati della libertà… di facile
non c’è proprio nulla, nemmeno nei pensieri, proprio perché
soprattutto quelli sono condizionati, a priori, dallo stato in cui ci
si trova; tutto viene ridimensionato e rivisto con occhio sempre
critico e afflittivo, è come una cintura che si stringe sempre più
alla vita, un nodo scorsoio, un indumento così stretto che
aderisce alla pelle e ne impedisce la naturale traspirazione.
È un abito scomodo e stropicciato… che in nessun modo si
accetta di indossare; quando si è colpevoli di un reato provoca
disagio e fastidio; quando si è innocenti è urticante, umiliante,
soffocante, devastante nel corpo e nell’anima.
Ma qualunque stato si stia vivendo, non bisogna mai, in nessun
caso, lasciarsi andare ad atteggiamenti e comportamenti istintivi
del momento: rabbia, astio, collera, sconforto… sono reazioni
istintive devianti, che distorcono e distolgono la mente dalla
realtà, finendo per peggiorare e complicare ancora di più ogni
cosa.
È un concetto difficile da acquisire in quei momenti, ma si deve
fare di tutto per ostacolare quegli stati d’animo che esasperano
ogni cosa, non perdere mai di vista il saper vivere in modo
dignitoso anche in tali circostanze; non rendiamo peggiore una
situazione già difficile per noi e, soprattutto, per le persone che
ci vogliono bene, ma utilizziamo questo tempo, questa
occasione, per una profonda riflessione, incontrandoci con noi
stessi e il nostro io più profondo. Sarà certamente un confronto
utile e in nessun caso sprecato o inutile.
L’esperienza del carcere può e deve essere non la fine, un punto
di arrivo, ma solo un punto di partenza dal quale far ripartire la
nostra vita, rimettendo ogni cosa nuovamente in discussione,
soprattutto noi stessi, non risparmiando la critica al nostro
vissuto. È questo un punto saldo da cui ripartire, magari con una
marcia in più, e lontano il più possibile da luoghi come il
carcere. Del “pianeta carcere” ci sarebbe molto da dire; negli
ultimi tempi si è detto tanto, si è fatto molto, ma non si è attuato
tutto. Ogni provvedimento atto a rendere più dignitoso il vivere
in carcere è partito con le migliori intenzioni, ma lungo il suo
tragitto è stato privato di quei mezzi essenziali per la sua
attuazione.
Ogni istituto, direttore, personale penitenziario, è continuamente
alle prese con mille problematiche di ogni genere, mettendoci,
nella maggior parte dei casi, il massimo impegno, ma spesso si
ha l’impressione di essere alla guida di una macchina che
dovrebbe essere efficiente, ma alla quale sembrano mancare il
motore e il carburante. Si prova a guidarla anche a spinta, con
forza di volontà e impegno, perché alla fine su quella macchina
ci sono persone, esseri umani e, anche a spinta si deve andare
avanti, nonostante tutto! Per un carcere più umano, più
dignitoso, non può bastare solo l’impegno degli addetti al
settore: molto potrebbe essere fatto dal mondo “di fuori”, da
persone che vivono onestamente una vita normale. Il mondo “di
fuori” deve sapere e volere incontrare il mondo “di dentro”,
mettendo in campo un confronto a 360°, un confronto che serva
da sprone iniziale a chi sta in carcere, un contributo anche
dialettico che serva a far capire a chi ha sbagliato che
un’alternativa ci può e ci deve essere, mettendo al centro il vero
concetto di onestà e correttezza morale.
Investire per coinvolgere il sistema intero affinché si rapporti
con le varie problematiche del carcere; perché l’alternativa
esiste, basta volerla e desiderarla pienamente. La scuola gioca il
ruolo più importante all’interno di ogni istituto: la cultura e
l’insegnamento hanno un ruolo fondamentale per combattere
l’ignoranza, quello stato mentale di chi ha sbagliato e non riesce
a percepirne il senso e il motivo. Una sorta di assuefazione
all’errore! L’ignoranza fossilizza l’uomo, lo rende
monotematico, pedissequo ai concetti e alle opinioni quanto al
modo di vivere degli altri.
La cultura e la conoscenza serviranno a renderlo un uomo
diverso, ad avere una propria visione sui concetti della vita, le
proprie idee, le proprie prospettive. La cultura apre le porte alla
conoscenza, al sapere e – soprattutto – al saper distinguere le
cose giuste, da fare, dalle cose sbagliate, da evitare, perché se
conosci il male lo eviti, se non lo conosci ti travolge anche senza
volerlo. La cultura è nutrimento, la conoscenza è arricchimento,
porta l’essere umano ad avere valori e principi veri e soprattutto
sani, lontano da ogni possibile contagio, perché la conoscenza
tiene lontani da alchimisti, falsi profeti, predicatori di ignoranza.
Il carcere, attraverso la cultura e la conoscenza, può essere il
luogo che accompagna l’individuo a conoscere i veri valori della
vita, a conoscere e apprezzare la vita onesta e dignitosa
attraverso un percorso condiviso. Sarà un progresso lento,
graduale, ma sicuramente fortificante. Naturalmente tutto
dipenderà da ciò che il carcere sarà e potrà offrire, ma ancora di
più dipenderà dalla concreta forza di volontà e dalla voglia
sincera di riscatto sociale che ogni detenuto avrà dentro di sé. Io
dico che il destino di ognuno di noi è nelle nostre mani. Il futuro
è nelle nostre intenzioni, e saranno i nostri atteggiamenti e i
nostri comportamenti a dirci chi siamo e che cosa vogliamo fare
della nostra vita. La vita è come un treno: sta a noi, solo a noi,
saperla condurre sul binario giusto! L’ignoranza è il buio, la
conoscenza e la cultura sono quella luce che illumina la nostra
vita, la nostra esistenza!