L’Italia è un Paese che si affaccia sul mare da ogni lato e ne è stato storicamente abbracciato. Dalle repubbliche marinare a oggi, il mare ha rappresentato una dorsale vitale per l’economia, la cultura e le relazioni internazionali. I porti hanno generato ricchezza, costruito imperi commerciali, plasmato città e comunità. Venezia, Genova, Pisa, Amalfi: nomi che ancora oggi evocano potenza e influenza, costruite sull’acqua salata e sui traffici di merci e persone.
Nel mosaico dei porti italiani, Gioia Tauro rappresenta un unicum assoluto: non una città portuale con un porto, ma un porto con appena una città. Costruito ex novo nel nulla della piana calabrese, Gioia Tauro è un’infrastruttura imponente calata su un territorio fragile, frammentato amministrativamente e storicamente privo di una cultura portuale.
Con oltre il 50% del PIL calabrese generato nell’area portuale, il porto è oggi una Ferrari che corre nel deserto: velocissima, tecnologicamente avanzata, ma senza una pista adeguata. Il territorio, infatti, non è mai riuscito a starle dietro: tre comuni (Gioia Tauro, San Ferdinando e Rosarno), tre aree industriali disarticolate, una classe dirigente spesso impreparata, incapace e divisa. A questo si aggiunge un’attività politica amministrativa fatta di vincoli paesaggistici, occasioni mancate e strumenti straordinari – dalla 488 alle ZES – incapaci di fare sistema.
È in questo scenario che si inserisce il recente scontro istituzionale sull’allargamento dell’imboccatura del porto. Da un lato, l’Autorità di sistema e il presidente Agostinelli – artefice di una gestione che ha mantenuto saldo il primato del terminal calabrese – dall’altro, l’amministrazione comunale, che pone legittimi dubbi di sicurezza, partecipazione e trasparenza. Uno scontro che non è tecnico, ma culturale. Non riguarda solo le onde o i fondali, ma le diverse idee di sviluppo.
Perché se è vero che il porto già oggi fa il massimo in termini di traffico container, è evidente che il futuro risieda nell’apertura al territorio e nella sua polifunzionalità. Un territorio che per decenni ha subito scelte calate dall’alto – dal “Pacchetto Colombo” al progetto del quinto centro siderurgico, dalla centrale a carbone al sogno intermodale – senza mai essere davvero coinvolto o ascoltato.
Eppure, negli ultimi trent’anni, qualcosa è cambiato. È cresciuta una generazione di tecnici, ingegneri, manager. È arrivata MSC con Aponte, dando stabilità e visione industriale. E oggi, per la prima volta, l’intera area è guidata da amministrazioni dello stesso colore politico: i tre comuni, la Regione, il Governo. Un’occasione storica per passare dal conflitto alla condivisione, dalla gestione emergenziale alla programmazione strategica.
Serve però un cambio di paradigma: un piano regolatore portuale che non sia solo tecnico, ma territoriale. Che sappia far dialogare il porto con la sua corona urbana, riscoprendo vocazioni dimenticate: la marineria, l’agricoltura, il commercio. Che trasformi il deserto industriale in una piattaforma produttiva moderna e attrattiva.
Gioia Tauro non può restare un gigante isolato. Deve diventare una capitale logistica integrata, ponte tra il Mediterraneo e l’Europa, ma anche tra lo Stato e il territorio. Perché lo sviluppo vero non è solo fatto di container movimentati, ma di comunità coinvolte. E solo una governance coesa, capace di superare il conflitto e disegnare visioni condivise, potrà finalmente guidare questa Ferrari sulla strada giusta.
Rosario Schiavone
Alleanza Gioiese