LO SPAZIO FILMICO: SCENEGGIATURE DI POTERE di Al.Tallarita

La tensione generatrice di processi di alienazione può generarsi unita al modo di rapportarsi in uno spazio. Come lo spazio simbolico che viene costruito a partire da un testo narrativo, ad esempio la sceneggiatura per film. Questo tipo di tensione è splendidamente rappresentata in tre pellicole cinematografiche definite trilogia sulla nevrosi del regista italiano Elio Petri , sceneggiatore con Ugo Pirro oltre che regista.

In questi tre film sono analizzati i processi di alienazione umana. Proprio derivati da una particolare percezione dello spazio in relazione al potere. Ed allo spazio che il potere occupa affiancato da elementi-strumento che ne rendono possibile la realizzazione e manifestazione. All’interno di tre determinati ambienti di potere le tre sceneggiature, spazio di ambientazione simbolica, sviscerano tutte le dinamiche e le simbologie principali. Nell’ambientazione di queste pellicole di Petri, si compie un esperienza inserita nell’ambito dell’alienazione legata al lavoro, al denaro e al potere. Il primo della cosiddetta trilogia della nevrosi: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Si apre sulla nevrosi del potere. Il secondo è: La classe operaia va in paradiso sulla nevrosi del lavoro. Il terzo completa con un’analisi sulla nevrosi del denaro: La Proprietà non è più un furto.

Tre luoghi alienanti, non-luoghi: il potere, la fabbrica e l’individuo-macchina e il denaro del potere-possesso-cosa sistuazioni in cui la persona smette di essere tale alienandosi da se stessa e rispetto allo spazio che vive, in quanto propenso a fargli vivere fortemente questa alienazione da se e dalla sua umanità. Il contesto di queste tre pellicole si apre incredibilmente alle tematiche sino a qui esposte sul tema di: spazio, luogo, ambiente e ambientazione. La percezione sbagliata che di questo se ne fa e che conduce all’alienazione e alla follia. Al potere filtrato all’interno dei suoi tanti mezzi, capace di esser gestito e imposto dagli oggetti, dai princìpi, dalle macchine e da se stesso. Il potere è ovunque. È muove le sue fila all’interno di una presunta normalità. Una realtà della norma imposta a più livelli, sino ad essere accettata come l’unica realtà possibile anche al di là di una soggettiva e individuale libera percezione. Da questo scontro nasce l’alienazione e il divenire corpo strumento del potere medesimo. La negazione di una libera umanità a favore di un sistema di potere tentacolare. Con Indaginesu un cittadino al di sopra di ogni sospetto si apre lo squarcio sulle nevrosi generate dal potere e si apre il primo scenario, ambiente in cui l’alienazione prende corpo attraverso i suoi personaggi. Film del 1970 vincitore dell’Oscar per il Miglior Film straniero e del Gran Prix della giuria del festival di Cannes, con la scrittura realizzata insieme a Ugo Pirro.

La musica di Ennio Morricone, la fotografia di Luigi Kuilliver, e il montaggio di Ruggero Mastroianni nasce quello che è un capolavoro della cinematografia italiana. Le stragi, gli atti sovversivi, le rivolte studentesche e, soprattutto, l’acuirsi delle tensioni politiche in quegli anni, sono la linfa vitale del film. Che non nasconde la sua matrice fortemente politica e accusatrice di un sistema avvertito come corrotto e subdolo, ridondante su se stesso. Il protagonista, è un commissario assassino interpretato da Gian Marie Volonté, che incarna l’immagine del potere nel pieno esercizio delle sue funzioni repressive coercitive.Il delitto è la sua pena, la sua contraddizione permanete. La figura contro-protagonista, anti-sistema, mina vagante è uno studente, Pace. Un anarchico individualista elemento che insidia la complessa macchina psicologica del potere e scardina con il suo anti-comportamento. In questo misurato confronto di personaggi e di situazioni gli sceneggiatori evitano il simbolismo a favore di una trama complessa della storia. Che verte sull’omicidio di una donna da parte di un alto ufficiale di polizia. Omicidio che diventa pretesto per un’indagine sullo stato delle cose nel contesto italiano, su chi detiene il potere e come se ne serve. Volonté incarna un personaggio voluttuoso perso nei meandri della giustizia. Un complesso d’Edipo mai acuito sotto la maschera grottesca di un tutore della legge, di una personalità fragile, i flashback con l’amante che riaffiorano. Le regole che crede di dover seguire e applicare finiscono per assillarlo, portarlo al collasso, all’impossibilità di rispettarle. In quanto personificazione del potere stesso, il commissario è blindato, protetto da una cerchia di altri potenti. Che lo facilitano a depistare le indagini. Nonostante le tracce lasciate appositamente che conducano a lui come colpevole di un incidente istituzionale. Mito e potere si incarnano in questo personaggio. Un capo della sezione omicidi, eroe anticrimine, che diventa lui stesso il crimine che dovrà scoprire e punire. Un Edipo che è contemporaneamente inquisitore e colpevole. Il potere della legge è sfidato e infranto per poter essere affermata nella sua possibilità di riconduzione alla normalità. L’essere umano di potere si ritrova a indossare una maschera per riuscire a sostenere il peso della sua posizione.

Una maschera che è travestimento e simulazione. È il potere che usa se stesso. Il film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri è del 1971. La sceneggiatura sua e di Pirro, Fotografia di Luigi Kuveiller a Cannes vinse Palma d’oro . Il personaggio cardine è un operaio di una fabbrica metalmeccanica, Ludovico Massa detto Lulù, interpretato da Gianmaria Volonté. Operario a cottimo con un ritmo produttivo che nessuno dei compagni riesce a eguagliare. Lulù produce e consuma. La sua casa è piena di oggetti inutili che compensano la mole di lavoro e l’alienazione di tutta la sua esistenza. I ritmi massacranti di lavoro lo conducono a un incidente in cui perderà un dito. Il fatto cambia il suo modo di vedere le cose, comincia una ferrea lotta contro il meccanismo del cottimo con uno sciopero a oltranza. Licenziato in tronco poi riassunto grazie all’intervento dei sindacati. Un ambiente filmico che entra nello spazio fabbrica. Ne studia antropologicamente le dinamiche e le gerarchie. La catena di montaggio e il lavoro che avviliscono i corpi fino alla loro fisiologica mutilazione. Il manicomio sembra l’unica luce in fondo al tunnel, il protagonista infatti è un essere umano-macchina, la suacasa è la fabbrica, il lavoro l’unico interesse. La famiglia è unmicrocosmo che fa da cornice, la casa un luogo dove riposare davanti un tubo catodico. L’essere umano-macchina moderno diniega il senso della vita, lavora per i beni terreni e per procurarsi vantaggi materiali. È un essere umano già morto, che si prima di emozioni che ne richiedano la responsabilità e il coinvolgimento. Che si sveglia da questa alienazione nel momento del suo incidente sul lavoro. Ma una risveglio breve, l’alienazione è già divenuta follia. Una maschera con atteggiamento iperbolico. Il lavoratore che massimizza le sue prestazioni lavorative e l’operaio in sciopero che non scende a compromessi neanche con i sindacati. La maschera grottesca di Lulù è accompagnata da un’inadeguatezza del soggetto infantile al mondo adulto e alle mediazioni che lo caratterizzano. Gli oggetti e le macchine prendono la scena all’essere umano. La follia sopraggiunge anche perchè non c’è accettazione della realtà. Nella clinica per alienati infatti Militina , un ex collega, mostra di non comprendere che il suo mestiere è ormai superato dalle innovazioni tecnologiche. L’alienazione ora follia si palesa fortemente nella scena conclusiva Lulù favoleggia ai compagni di un muro da abbattere oltre il quale c’è il paradiso della classe operaia.
(fine I parte)