Un calabrese al Giglio, il diario di Aldo Alessio: L’Ingaggio

 

Parto da Gioia Tauro. Una giornata bella e soleggiata. Non è la prima volta che il mio lavoro da “marinaio” mi porta lontano, fuori dalla mia città e dalla mia terra e forse non sarà neanche l’ultima. Dal treno osservo la Città che si rimpicciolisce sino a sparire, gli uliveti e poi gli agrumeti che si allontanano sempre di più, gli alberi e il verde dei prati e i fiori gialli delle acetoselle. Il paesaggio calabrese è stupendo. Ho un po’ di nostalgia, qui lascio il mio cuore, i miei affetti familiari, gli amici e una parte dei miei sogni. Parto con un po’ di tristezza, ma con la consapevolezza che ritornerò. C’è ancora tanto da fare per questa nostra cara ed “amara” terra. Alle mie spalle lascio una Città sofferente, che arranca, quasi moribonda, e che stenta a decollare, lascio anche una Calabria che, con il modello Scopelliti e Gentile, ha dimostrato di non voler ancora cambiare. Eppure, in questa nostra bella terra, dove non mancano i cervelli, tra i più raffinati e migliori, obbligati il più delle volte ad una forzata emigrazione, ci sono tante persone oneste e per bene che se solo lo volessero, potrebbero impegnarsi in prima persona per cambiare tutto, ridare ai giovani il loro futuro e restituire anche i sogni che sono stati sottratti ai calabresi dalla ‘ndrangheta, dal malaffare e da una classe politica senza cuore e senza anima che pensa solo a se stessa. “Dio creò la Calabria, ma non i calabresi, probabilmente, perché convinto che chiunque l’avesse abitata l’avrebbe sicuramente amata per le sue straordinarie ed infinite bellezze”. Così non è stato. E’ proprio quello che è sempre mancato a questa terra e cioè un popolo che fosse stato capace di amarla con fatti concreti anziché con le chiacchiere.

Prima tappa Ancona. Il tempo del disbrigo delle procedure di ingaggio e poi il primo di Aprile partenza per l’isola del Giglio.

Arrivo a Porto S. Stefano. Il tempo di fare il biglietto e imbarco su un piccolo traghetto denominato “Isola del Giglio” della Maregiglio, destinazione Porto Giglio. Assieme a me imbarcano sei autovetture e circa una trentina di persone compresi alcuni turisti. La traversata dura un’ora. La giornata è soleggiata e il mare calmo. Al largo si intravede qualche motopeschereccio con i gabbiani che gli fanno da corona alla sua poppa. Un traghetto di linea attraversa il tratto di mare compreso tra l’Isola del Giglio e Monte Argentario. Dopo aver accostato da Monte Argentario si vede l’Isola del Giglio: da lontano mi appare come il dorso di un grande animale marino “preistorico” che emerge dalle profondità delle viscere di quelle acque limpide ed azzurre. Nella mia memoria riemerge il mito di Ulisse con i suoi viaggi e la sua Odissea nel “Mare Nostrum”. Man mano che ci avviciniamo, a destra di Porto Giglio, si intravede una sagoma bianca a strati che appare, inizialmente, come uno di quegli ecomostri, di quegli scempi edilizi, costruiti sulle coste ai tempi delle “allegre” autorizzazioni. La costa si avvicina, quella sagoma incomincia a prendere corpo sempre di più sino a farsi riconoscere: è il relitto della M/N “Concordia”. Sulla sinistra, a molte miglia di distanza più a Sud, si incomincia ad intravedere lo scoglio “assassino” delle “Scole”, sì, proprio quello che il Comandante della Concordia, Francesco Schettino, dopo il disastro, a sua discolpa, dichiarò infelicemente che non risultava neppure segnato sulla carta nautica. Quello scoglio è lì, da milioni di anni, infrangendo da sempre i marosi che si sono abbattuti. Uno scoglio quello delle “Scole” conosciuto da tutti, tranne da chi non lo ha mai voluto conoscere. Questa volta la montagna non è andata da Maometto, bensì è stato Maometto a recarsi alla montagna. Infatti, la Concordia quello scoglio se lo è andato proprio a cercare, perché era lì immobile sin dalla notte dei tempi, imprigionato a rimanere lì per l’eternità. Nella collisione un pezzo di scoglio, in profondità, aprì come un apriscatole la parte laterale sinistra della carena della nave, sino al punto che una parte di esso si staccò incastonandosi nella sua fiancata e portato via con sé come ornamento e pietra preziosa. Il gigante del mare, ferito mortalmente, proseguì la sua lunga corsa in conc2agonia, lasciandosi trasportare dolcemente dalle correnti marine e dal leggero vento “zefiro”, sino ad arenarsi e poggiarsi dolcemente sul suo fianco dritto sopra un altro scoglio antistante poche centinaia di metri più a Nord dall’imboccatura di Porto Giglio, e oramai stremato, quasi a volersi riposare, lì si coricò, dopo un’ultima scivolata verso una maggiore profondità, e morì. La Concordia, una delle più grandi, moderne e innovative navi passeggeri mai costruite dall’uomo nella storia delle costruzioni navali, con tutti i suoi sofisticati congegni, computer di bordo, ricezioni satellitari e altre diavolerie di bordo, terminava così la sua crociera nel modo peggiore e con ben 32 vittime innocenti. Ciò che non poteva e che non doveva accadere, l’irreparabile, si è consumato sotto gli occhi di tutti, non in pieno Oceano lontano, a largo dalle coste, non per una collisione con un gigantesco iceberg o con un’altra nave durante la nebbia, non per un grave incendio a bordo e oramai indomabile, non sotto i possenti colpi delle gigantesche onde di un Ciclone. No! tutto si è consumato in poche ore, in una serata tranquilla, con mare calmo piatto, proprio lì, a poche centinaia di metri dalla costa dove, a volte, anche i dilettanti più temerari si spingono per pescare. Quel disastro sconvolse i cittadini del mondo che seguirono l’intera vicenda incollati agli schermi televisivi e trepidanti, minuto per minuto. Quello schiaffo ha colpito non solo chi era al comando della Concordia, ma anche tutti gli “Ufficiali” della “Marina Mercantile Italiana” che sino a quel giorno potevano vantare, nel mondo e con orgoglio, di un passato glorioso. Non sarà facile dimenticare ciò che è stato immortalato e per sempre sui libri di storia.