Ci girano le pale, un disperato appello ai Calabresi

Cari calabresi,
se non fossimo come siamo, se ci soccorressero una maggiore generosità e un forte bisogno di giustizia, di pace, di intimità con la natura, di comunità e di bellezza, il territorio regionale sarebbe ancora per noi habitat e non merce a disposizione di affaristi di ogni risma, terremmo in alta considerazione l’agricoltura di sussistenza contro cui la società italiana condusse nel dopoguerra una lunga e vittoriosa guerra senza quartiere.
Per le nostre necessità primarie, se non fossimo come siamo, ci gioveremmo di ecosistemi in buona salute e non saremmo esposti al dileggio di alcuni contadini ultranovantenni e ultrameridionali secondo i quali i principali criteri per valutare il benessere di qualsiasi luogo risiedono nella sovranità alimentare e nella qualità delle relazioni umane.
Se fossimo diversi né Pietro Romeo di Brancaleone né Micu Milea di Bova potrebbero dire che “i sessant’anni a sta via non ficimu progressu. Pe casi ndavimu casermi chi scuranu u cori, i campagni i bbandunammu, ndi scannamu unu cu n’autru. Chi è u progressu, a scarpina a stessa d’a giacca? Simu poveri e pacci, mastri di miserabilità”.
Se non fossimo come siamo la bilancia agroalimentare calabrese sarebbe in attivo com’era nel 1951, e non saremmo costretti a importare i quattro quinti di quello che mangiamo. Ci meriteremmo inoltre anche oggi l’apprezzamento che nel 1950, sul famoso numero della rivista “Il ponte” dedicato alla Calabria, Giuseppe Isnardi espresse con queste parole: «…Il visitatore nota dappertutto nella Regione una assenza di aspetti di benessere che in altre sono comuni sino alla fastidiosa volgarità. Per esempio colpisce in Calabria la infrequenza di quel tipo di abitazione borghesemente mediocre, che è la cosiddetta “villa” col suo giardino spesso pretenziosamente privo di gusto. Colpisce la rarità di piante esotiche, cui il clima sarebbe indubbiamente favorevole; le palme, ad es., sono relativamente scarse, in Calabria, e si possono dire quasi assenti dal suo paesaggio, in confronto a quel che avviene invece in Liguria.»
Purtroppo mali pe nui già nel 1961 ci avviavamo a essere come siamo e lo stesso Isnardi fu costretto a scrivere che, se sul turismo si appuntano molte speranze di «rifiorimento economico della Calabria … bisognerà tuttavia tenere presente il pericolo che ne possa venire una diminuzione dei tratti ed aspetti più caratteristici della sua fisionomia di paesaggio, alterazione purtroppo qua e là già in atto, sì che, in alcuni casi, soprattutto nelle plaghe costiere, si può già parlare addirittura di distruzione. Il fascino di una Calabria “modernizzata” … potrebbe durare ben poco e risolversi in danno più che in vantaggio serio e durevole».
Il monito non lo abbiamo ascoltato e ora amari nui siamo come siamo, ci aggiriamo alienati e allucinati tra le macerie della millenaria storia rurale del territorio e il degrado ambientale crescente generato da un modo di vivere, di produrre e di costruire che, mentre compromette sempre più le condizioni per l’esistenza delle specie viventi sul pianeta, continua imperterrito a celebrare i suoi trionfi.
Le nostre aree interne sono spopolate, facile preda del dissesto idrogeologico e degli appetiti di speculatori che magari mostrano il volto dei diffusori di fonti energetiche rinnovabili; le zone costiere sono metastasi urbanistiche fondate sulla capillare caotica avanzata di spazzatura edilizia, di tombe d’ asfalto che ricoprono i suoli, di volgarissimi lungomari e stabilimenti balneari. Un orrore, sventurati e meschini nui, del quale siamo quasi tutti complici, perché senza una generale connivenza i nostri porcarusi politicanti, i governi italiani, la massoneria e gli assassini titolari di quelle imprese commerciali avanzate chiamate ‘ndrangheta, grandi interpreti dello spirito capitalistico, non avrebbero avuto tanto spazio di manovra.
Se non fossimo come siamo, infatti, l’esistenza di siti contaminati da scorie industriali, materiali radioattivi, metalli pesanti e compagnia brutta scatenerebbe reazioni degne di questo nome e l’impianto di atroci foreste eoliche sarebbe stato inaccettabile e scandaloso ancor prima della scoperta da parte della magistratura della corruzione e del mangia mangia da cui è scaturito. L’affare è così grosso che gli affaristi più agguerriti hanno fatto ricorso all’omicidio per accaparrarsene una porzione e alcuni nostri scrittori, invece di denunciare l’incremento del dissesto idrogeologico, l’inquinamento e lo scempio del paesaggio provocato dai mostri roteanti creano personaggi che tornano a casa felici “di rivedere dal finestrino le colline bianche di pale eoliche”, come se fossero querce o ulivi. E addirittura qualche nostro giornalista, come se fossero quisquilie, pinzillacchere e sciocchezzuole i cantieri, le strade costruite appositamente, l’abbattimento di alberi, il consumo di suolo ha composto un peana per segnalarne l’ avvento: «In fondo sono i vecchi e familiari mulini, ma non bisogna più chiamarli così. Adesso si chiamano aerogeneratori. Aerogeneratori di ricchezza e sviluppo per l’ Aspromonte, nel pieno e totale rispetto per l’ ambiente».
Se non fossimo come siamo i nostri giornalisti ci farebbero capire che l’ unica energia pulita è quella risparmiata e ci spiegherebbero che i danni in termini di CO2 causati dall’abbattimento di un grande albero è difficile compensarli con la produzione di energia eolica, e quindi che sarebbe meglio sacralizzare piante e suoli liberi, gli agenti di assorbimento dell’inquinamento atmosferico. Purtroppo però, focu randi chi ndi cassarìa, il pensiero critico è diventato cosa rara nelle lande desolate nostre è quasi nessuno al cospetto dell’affare eolico è animato dalla lucidità e dall’indignazione manifestate nel modo che segue da un pastore di Bagaladi (RC): «Giranu, giranu, ma chi nci giranu? Giraru sordi pe ddi munzeddi di fumeri chî frabbicaru. N’atra para d’anni u mundu è chinu chinu di sordi e mundizza, i muntagni mundati e vogghiu vidiri chi mangiamu».
Cari calabresi è tempo che tutti i luoghi e le comunità della terra riprendano in mano il loro destino, affidato negli ultimi secoli al forsennato e devastante produttivismo dell’economia industriale, e da Porto Alegre in poi qualcuno ha cominciato a farlo. Siamo chiamati dalla storia, visto che il futuro imminente della società in crescita, da cui come tanti cazzuni mericani non ci siamo finora dissociati, è il collasso ambientale definitivo, ad adottare stili di vita meno distruttivi, ispirati dall’amore per i territori che abitiamo e dal senso di responsabilità nei confronti degli equilibri ecologici e del paesaggio. Le mamme dei nostri figli dovranno raccomandare alla prole di imparare a coltivare, a riconoscere le piante selvatiche commestibili, a fare il miele e il formaggio anche se qualcuno vorrà diventare ingegnere o avvocato. Dovranno anche raccomandare ai pargoli, queste mamme illuminate, di passare dai rapporti interpersonali retti dalle gerarchie e dalle convenienze individuali a legami sociali forti e imperniati su valori solidali, pratiche cooperative e senso di appartenenza collettivo all’ambiente di insediamento.
Insomma cari calabresi non possiamo più essere come siamo: o suona l’ora della nostra riscossa oppure, come scrissero qualche anno fa Arturo Lavorato e Felice D’Agostino in un’opportuna dichiarazione di guerra, possiamo accomodarci nel cimitero dei popoli morti.

TRADUZIONI IN NOTA
1. Da sessant’anni a questa parte non abbiamo fatto alcun progresso: non abitiamo più case ma caserme che oscurano il cuore, abbiamo abbandonato le campagne, siamo propensi a scannarci tra noi. Dove sarebbe il progresso, nella scarpina intonata alla giacca? Siamo in realtà poveri e pazzi, maestri di vita miserabile.
2. Girano, girano, ma qual è il motivo per cui girano? Perché hanno fatto girare soldi a favore di quei cumuli di merda che li hanno costruiti. Tra qualche anno il mondo sarà completamente coperto da soldi e spazzatura, le montagne saranno prive di vegetazione e voglio vedere cosa mangeremo.

Laboratorio territoriale di San Lorenzo e Condofuri